3 sono le domande che possiamo porci quando parliamo dell'esperienza umana religiosa:
- perché siamo l'unica specie che crede in un mondo parallelo e ha una religione?
- che funzione ha la religione per i nostri antenati e in che misura questa continua ad assolverla?
- nella storia dell'uomo, quando è comparsa la religione?
Prima di rispondere a queste 3 domande, che Robin Dumbar solleva, è necessaria una lunga introduzione.
Il più delle volte, durante le mie
lezioni sulle prime unità didattiche inerenti argomenti quali
“l’Io”, il “Sé”, le relazioni sociali o perché l’uomo,
di aristotelica memoria, è un animale diverso, alcuni miei alunni,
quando parlo dell’uomo come essere capace di utilizzare il cervello
in modo del tutto peculiare rispetto a qualunque altro essere
vivente, mi domandano: “Lei come fa a saperlo e soprattutto come
può dimostrarlo?” “Il mio cane/gatto/cavallo è
intelligentissimo”. In questi casi mi trovo a dover affrontare una
sorta di ingenuità cognitiva. Il fatto che abbiamo la capacità
cerebrale di fare tutti i calcoli necessari, non può farci asserire
che anche tutti gli altri animali abbiano le stesse attitudini, o
quanto meno che abbiano bisogno di una teoria della mente per poter
operare correttamente nelle società in cui vivono. Vorrei
approfondire questo tema per presentare le più recenti teorie
sull’evoluzione umana, attingendo dalla biologia, dalle scienze
cognitive, dalla paleontologia e dall’archeologia.
Alla fine degli anni
sessanta del secolo scorso, due genetisti americani -Vince Sarich e
Alan Wilson- avanzarono l’ipotesi che l’origine comune a noi e
alle scimmie antropomorfe dovesse essere fatta risalire a non più 3
milioni di anni fa, ma all’inizio tale orologio fu regolato male. I
dati su cui fondavano questa proposta quasi scandalosa erano le
somiglianze esistenti tra il codice genetico dell’uomo e quelli
delle grandi scimmie antropomorfe africane. Dopo aver decifrato il
codice genetico la scienza della genetica stava aprendo nuove
frontiere a sconfinati orizzonti e così si giunse all’ipotesi che
il DNA – le immortali molecole avvolte ad elica all’interno di
ogni cellula vivente che recano con sé le informazioni necessarie
per la formazione di nuovi organismi – potesse essere usato come
orologio biologico. Tale idea nasce dalla constatazione che le
strutture del codice genetico possono mutare nel corso del tempo. La
causa di questo fenomeno è un’imperfezione nel modo in cui il DNA
copia se stesso nel corso della riproduzione; tale processo è
definito “mutazione”. Spesso, ma non sempre, tali mutazioni non
hanno alcun effetto sull’organismo, e queste differenze, di
importanza poco rilevante, si accumulano col trascorrere delle
generazioni e finiscono per costituire il bagaglio genetico. Per
intenderci, risulta che il nostro materiale genetico è composto da
più di un miliardo di geni e di questi 30.000 sono attivamente
coinvolti nella costruzione dell’organismo umano. Il resto, il DNA
“spazzatura”, è la combinazione di elementi strutturali e di
virus che si sono inseriti in modo parassitario nel nostro DNA nel
corso del tempo a partire da quando la vita ha avuto inizio. Tale DNA
“spazzatura”, non avendo nessun effetto sull’organismo, dimora
tranquillamente nella sua tana molecolare percorrendo senza sforzo la
sua strada evolutiva grazie all’abilità riproduttiva del suo
ospite e non subisce effetti della selezione naturale. Quindi è
soggetto solo ai processi interni di mutazione. Tale segmento di DNA
fornisce la base per la misurazione dell’orologio molecolare di
Sarich e Wilson. Come funziona? Il ritmo con cui si verificano questi
mutamenti “occulti” si mantiene abbastanza costante nel tempo e
il numero di differenze esistenti tra due qualsiasi individui
rappresenta una misura approssimativa del lasso di tempo che
intercorre evolutivamente tra essi, ossia che li separa dall’ultimo
antenato comune. Allora da un lato si ha la selezione naturale
influenzata da quei segmenti di DNA che fungono da codici per la
formazione di una parte dell’organismo. Ciò avviene attraverso il
successo o l’insuccesso della parte dell’organismo che influisce
direttamente sulla possibilità del gene produttore d'essere
trasmesso o no alle generazioni successive e dunque sotto la
pressione della selezione naturale, il meccanismo che Darwin pose
alla base del cambiamento evolutivo. D'altro canto accade che, se
un gene non produce alcun effetto sull’organismo e la selezione non
esercita alcuna pressione, negativa o positiva, le frequenze dei geni
cambiano solo per graduale accumularsi di mutazioni. Questo è il
processo di lento accumulo di errori di copiatura che Sarich e Wilson
considerarono adatto a servire da orologio molecolare per ricostruire
i tempi di separazione di linee evolutive strettamente imparentate. I
genetisti avevano ragione e questo orologio funziona correttamente.
Esso può essere usato per stabilire la data d’inizio della
divergenza tra due linee evolutive. Gli esseri umani e le scimmie
antropomorfe dei nostri giorni condividono un passato molto più
recente. Le stime sull’ultimo antenato in comune all’uomo e agli
scimpanzé indicano un lasso temporale che non supera i 5/7 milioni
di anni. Dopotutto i primati sono in circolazione sul nostro pianeta
da più di 65 milioni di anni. A ciò va aggiunto che gli scimpanzé
hanno una relazione più stretta con l’uomo che con i gorilla e gli
oranghi. Questa conclusione ha portato a rivedere la classificazione
zoologica delle scimmie antropomorfe. In definitiva uomini e
scimpanzé condividono il 98,5% del patrimonio genetico. In poco meno
dell’1,5% dell’intero patrimonio genetico si nasconde la
differenza tra l’umano e l’animale. In questo 1,5% troviamo il
mentale ovvero: come so di sapere qualcosa? Ma com’è
che soltanto noi umani possiamo fare questo? A questo punto il mio
alunno mi chiederà: “come fa a dire che soltanto noi umani
possiamo fare questo?”
Dopo aver affrontato il
legame di parentela che unisce noi agli scimpanzé, nel prossimo
approfondimento parleremo di cosa ci rende così diversi, da loro e
da tutto il mondo animale.
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